Economia etica e impresa socialmente responsabile
[©2009]
Scopo del presente lavoro è stato quello di fare il punto su un tema di cui si parla molto e, come speso accade, a volte anche in termini troppo generici o inappropriati tanto da farlo apparire una moda perfino preoccupante. E lo abbiamo fatto cercando di tracciare un percorso che all’analisi delle verosimili opzioni interpretative e dei possibili sbocchi operativi, dal punto di vista delle azioni imprenditoriali, è arrivato partendo da quella che è unanimemente riconosciuta l’esperienza storica più significativa che abbia anticipato la moderna diffusione di questo concetto: l’opera di Adriano Olivetti, figura tra le più singolari e complesse del dopoguerra.
Se assai controverso è il giudizio sul suo lavoro politico, al contrario non c’è discussione sulle qualità e sul ruolo eccezionale di capitano d’industria illuminato e dinamico, che intuì tra i primi il nesso profondo tra industria e cultura e, forte di tale intuizione, seppe portare l’azienda paterna sulle frontiere più avanzate della tecnologia e seppe inserirsi nella dura competitività internazionale con la nota distintiva e il prestigio della sua personalità di neo-umanista .
In questa straordinaria attività imprenditoriale, la sua singolarità sta nell’aver responsabilmente tentato di adoperare la fabbrica come uno strumento di elevazione umana, di aver cercato di creare un nuovo tipo di impresa quale soggetto di responsabilità comunitaria, in grado di armonizzare i propri valori con quelli della civiltà di riferimento per realizzare un sano equilibrio sul territorio.
Perciò, se verosimilmente oggi potrebbe risultare alquanto anacronistico il suo programma di ristrutturazione post-liberista dell’economia, secondo la nota formula “socializzare senza statalizzare”, l’idea che “la moralità di una fabbrica dipende in altissimo grado dagli scopi dell’azienda stessa” , scopi alla cui definizione i lavoratori organizzati devono essere messi in grado di partecipare, ribalta la morale tradizionale del profitto e si avvicina alle più moderne concezioni di Rsi.
Così, rispetto ad una realtà come la nostra che, pur non molto lontana dalla sua, è profondamente cambiata e ha accentuato fenomeni come disuguaglianze e povertà, tra i paesi come all’interno dei paesi, quell’esperienza è quanto mai vitale ed estremamente attuale. Paradossalmente, proprio una società come la nostra, dominata da un’elevatissima mobilità spaziale e temporale di persone e risorse di ogni genere, favorita dallo sviluppo delle reti di connessione e di scambio in tutti i campi della vita sociale, sembrerebbe avere bisogno più che mai della visione di Olivetti ispirata da una profonda nozione di uguaglianza delle persone.
Certo che nel tempo presente e in situazioni mutate i contenuti di quella visione per essere tradotti in pratica richiederebbero strumenti differenti, più adeguati da quelli di allora. Ma è ugualmente certo che la Olivetti di Adriano rappresentava allora quello che oggi si chiede alle imprese di essere: dietro al suo marchio c’erano realizzazioni imponenti, sia sotto il profilo industriale sia sotto il profilo sociale e culturale. C’erano fabbriche lucenti, buone condizioni di lavoro, alti salari, innumerevoli attività culturali e socio assistenziali, iniziative a favore dello sviluppo locale .
Abbiamo evidenziato come la globalizzazione della dimensione economica, slegando il nesso tra territori e imprese, rischia di spingere queste ultime verso atteggiamenti predatori rispetto alle risorse dei primi senza alcuna attenzione per le conseguenze delle scelte e delle attività poste in essere. Proprio l’affermazione di questo nuovo modello di economia senza confini, caratterizzato principalmente dalla possibilità sia di abbattimenti dei costi, sia di facilità di accesso a materie prime, manodopera e tecnologia, pone alle imprese il problema di ripensare strategicamente il rapporto con i mercati potenziali. Negli ultimi decenni le imprese hanno compreso che la loro sopravvivenza e il loro successo non sono legati solo al raggiungimento di una determinata performance in termini di profitto, che il loro operato non è valutabile in base ai soli criteri di efficienza, ma anche all’assolvimento di finalità di natura sociale, a indicatori dell’impatto dell’azione organizzativa sui contesti locali, prendendo in considerazione i risvolti etici o il contributo al benessere collettivo.
Abbiamo visto come questo progetto di ricostruzione di forme nuove di solidarietà tra imprese e territori sia diventato centrale nella riflessione europea sulla responsabilità sociale delle imprese, che ha trovato una sua strutturazione normativa nel Libro Verde della Commissione europea nel 2001. Le imprese sono chiamate a ripensare se stesse in termini che sappiano eccedere la logica meramente economica e, conseguentemente, a ripensare i propri interlocutori che si allargano fino a ricomprendere non solo l’intera comunità stanziata sul territorio, ma la stessa società civile . Sotto questo aspetto, la Rsi si presenta come il risultato relativamente recente della presa di coscienza di quanto sia possibile conseguire nel mercato anche obiettivi di natura pubblica, conciliando così le esigenze dei consumatori di agire secondo le proprie convinzioni etiche. Infatti, pur permanendo la rilevanza dei criteri tradizionali per le scelte di consumo (economicità dei prodotti,qualità del bene, facilità di accesso al punto vendita, ecc.), abbiamo rilevato l’emergere sulla scena economica della nuova figura del consumatore-cittadino, un soggetto impegnato nell’operare scelte socialmente responsabili nella sua condotta di consumo, che ha rappresentato uno dei fattori n grado di dare un forte impulso all’introduzione di una dimensione etica nelle classiche valutazioni di opportunità economica delle imprese. I consumatori si mostrano più attenti agli aspetti etici presenti nelle transazioni commerciali, sia per le eventuali ricadute sulle proprie sfere di interesse (garanzie sulla propria salute, tutela dei lavoratori), sia per il desiderio di trovare nella relazione d’acquisto contesti in sintonia con i propri valori.
Sulla base di queste premesse, ne deriva che le imprese, per preservare il proprio vantaggio competitivo, devono assumere comportamenti responsabili, sostenendo i valori umani, gestendo le proprie attività in modo trasparente, corretto e attento alle aspettative del pubblico, e facendo in modo che i comportamenti organizzativi siano percepiti come tali dalla collettività.
Nella sua accezione moderna la Responsabilità sociale d’impresa fa dunque riferimento a pratiche e comportamenti che le organizzazioni adottato su base volontaria, superando il concetto di rispetto degli obblighi legali a cui le imprese sono sottoposte, integrandoli con la semplice assunzione di una posizione filantropica. In questo senso la Rsi non è un fenomeno episodico o strumentale, bello da vedere o da vendere, ma un valore e una pratica che, in quanto leva competitiva che può e deve dare frutti, si misura nell’ambito complessivo dei processi, investendo tutti gli aspetti della filiera: nella produzione, nella distribuzione, nella comunicazione, nei rapporti con i consumatori, e alla fine anche negli aspetti di solidarietà. Pur comportando benefici potenziali in termini di reputazione, abbiamo osservato che se praticata effettivamente e non solo dichiarata la responsabilità sociale d’impresa implica un sostanziale aumento dei costi per l’azienda. Per questo la Rsi si presenta allora come un progetto complesso e ambizioso il cui successo si presenta difficile quanto auspicabile proprio perché non è un “pasto gratis”, secondo una tipica espressione utilizzata dagli economisti . Essere responsabili non è fine a sé stesso, ma un tassello del mosaico generale della sostenibilità. Sotto questo aspetto essere imprese responsabili non è più una scelta d’amore ma prima necessità per la sopravvivenza stessa dell’impresa. Perciò, occorre essere responsabili per forza .
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